Sistemi di individuazione precoce della crisi d’impresa

I recenti eventi legati alla pandemia da virus SARS COV 2, che hanno causato nel periodo
di lockdown lo stop forzato di numerose attività economiche e le conseguenti difficoltà
aziendali connesse alle riduzioni di fatturato e alla necessità di riscadenzamento dei debiti,
hanno posto l’accento sul fenomeno della crisi d’impresa e sulle possibilità/necessità di
soluzione della stessa.
Vero è che la crisi derivante dall’epidemia di coronavirus è stato un evento eccezionale e
del tutto imprevedibile, che ha costretto le istituzioni a trovare le soluzioni economico –
finanziarie più disparate per sostenere le imprese; queste ultime si sono concretizzate in
una serie di provvedimenti quali contributi a fondo perduto, garanzie pubbliche
sull’accensione di prestiti di emergenza, sospensione dal pagamento dei finanziamenti,
crediti d’imposta, cassa integrazione straordinaria e deroghe alla disciplina
dell’ammortamento delle immobilizzazioni aziendali e delle perdite di bilancio.
Tuttavia, già da molto tempo prima dell’esplosione dell’emergenza epidemiologica,
l’attenzione del Legislatore italiano si era focalizzata sulla problematica della crisi d’impresa
con l’inserimento, nel contesto giuridico, di diverse norme finalizzate all’emersione
anticipata del fenomeno, tramite l’obbligo di adozione di sistemi di diagnosi volti ad
individuarne anticipatamente i segnali, prima che questa divenga grave ed irreversibile.
Per comprendere la portata e l’importanza dei sistemi di individuazione anticipata della crisi
occorre, dunque, capire le cause del fenomeno e le diverse tipologie di crisi cui ci si può
trovare di fronte.

Come illustrato nel grafico che segue, dal 2018 il numero di PMI che hanno avviato procedure di default o di liquidazione è nuovamente in crescita; dopo essere tornati su livelli fisiologici, nel 2019 i fallimenti sono tornati ad aumentare, con incrementi più sostenuti nell’industria e nei servizi.

CAUSE: ESOGENE O ENDOGENE

Occorre distinguere i casi in cui la “crisi” deriva da elementi non dipendenti da situazioni o fattispecie interne all’impresa ma da elementi ad essa esterni; in questo caso, si parla di cause esogene: ne è un esempio la già citata crisi derivante dall’emergenza pandemica da diffusione del virus COVID 19; altri esempi possono essere gli sconvolgimenti nell’assetto politico istituzionale di un paese (es. rivolte socio – politiche, emersione di regimi dittatoriali) oppure, con riferimento a esempi meno traumatici:

  • l’innovazione tecnologica del settore di riferimento, che causa l’obsolescenza del prodotto o servizio offerto fino a quel momento;
  • l’ingresso sul mercato di nuovi competitori aventi significativi vantaggi distintivi; si pensi ad esempio alle produzioni industriali provenienti da paesi aventi la possibilità di accedere a manodopera a basso costo;
  • il declino dello stesso settore di riferimento, dovuto ad esempio a un cambiamento dei gusti del mercato di riferimento (il consumatore finale).

È evidente come, in questi casi, le soluzioni siano fuori dalla portata del singolo imprenditore e rimesse, piuttosto, a un dialogo tra soggetti istituzionali.

Diverso è il caso in cui la crisi abbia origine interna all’azienda, ossia abbia natura endogena: essa, nella maggior parte dei casi è prevedibile grazie ad opportuni strumenti di diagnosi, in quanto è riconducibile, in sintesi, a quattro tipologie:

  • squilibrio finanziario tra fonti di finanziamento e impieghi di capitale;
  • produzione eccessiva rispetto a quanto assorbibile dal mercato;
  • mancanza di efficienza;
  • squilibrio economico tra ricavi e costi.

Le suddette tipologie sono esposte in una scala di gravità crescente e, ben potendo essere autonome l’una dall’altra, possono anche avere una manifestazione “progressiva”: capita spesso cioè che si cominci con il manifestarsi di uno squilibrio finanziario che, se non risolto, porta progressivamente all’inefficienza e alla disgregazione aziendale per mancanza di economicità.

I RIMEDI PRECOCI

Come detto, il Legislatore italiano, in un’ottica della conservazione del tessuto imprenditoriale nazionale, composto prevalentemente da imprese medio – piccole a ristretta base societaria (spesso riconducibile ad un nucleo familiare), ha introdotto nell’ordinamento, con Decreto Legislativo n. 14/2019, il 2° comma all’art. 2086 del codice civile, stabilendo che l’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.

Detta norma, pertanto, costituisce un vero e proprio obbligo giuridico per l’imprenditore, con la conseguenza che, in mancanza, la situazione di dissesto creatasi per la mancata emersione preventiva della crisi comporterà, in particolar modo per gli amministratori di società, una causa di responsabilità verso la società stessa per i danni derivanti dall’inosservanza dell’obbligo.

Gli assetti organizzativi esistenti, dunque, andranno adeguati per le finalità prescritte dalla norma, al fine di essere posti in grado di rilevare tempestivamente i segnali di crisi e di perdita della continuità aziendale.

Ma in cosa consiste, in sintesi, un sistema di rilevazione preventiva della crisi?

In primo luogo, senza dubbio, nella formalizzazione almeno minimale degli assetti organizzativi aziendali, che individuino chiaramente:

  • la descrizione dei processi aziendali e delle relative procedure di svolgimento;
  • i soggetti preposti alle funzioni, ai compiti e alle responsabilità;
  • la descrizione delle singole mansioni e delle relative responsabilità;
  • l’architettura del sistema informativo aziendale e del relativo sistema di protezione dei dati;
  • le modalità di trasmissione delle informazioni all’interno dell’azienda.

In secondo luogo, nella formalizzazione di un sistema di controllo interno (SCI) che, compatibilmente con le dimensioni aziendali, preveda:

  • un sistema di pianificazione degli obiettivi strategici di medio – lungo termine;
  • un sistema di budgeting che consenta di tradurre i suddetti obiettivi in azioni e risultati di breve termine;
  • un sistema di controllo dei risultati e degli scostamenti rispetto ai risultati attesi;
  • un sistema di early warning in caso di emersione di fenomeni predittivi di crisi;
  • un sistema di reporting per la direzione aziendale, al fine di adeguare gli obiettivi strategici al concreto contesto operativo, mutevole nel tempo.

 In terzo luogo, nella istituzione di un sistema contabile di rilevazione degli accadimenti gestionali che consenta l’attendibilità della rappresentazione in bilancio dei relativi dati, in modo tale che quest’ultimo possa costituire un compendio di informazioni valide per decisioni consapevoli, non solo di soci e amministratori, ma in generale di tutti gli stakeholders, ossia di coloro che, a vario titolo, sono interessati alle sorti dell’azienda (es. clienti, fornitori, banche, dipendenti, ecc.).

I VANTAGGI DEL SISTEMA DI CONTROLLO INTERNO

Passando alla disamina dei benefici ritraibili dall’adozione dei rimedi sopra descritti, si rappresenta innanzitutto che l’istituzione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile, oltre ad essere ormai un obbligo di legge, consente innanzitutto a chi lo ha adottato e regolarmente implementato, monitorato e aggiornato, l’esimente giuridica dalla responsabilità per danni nei confronti dell’azienda (tanto più se l’impresa è costituita in forma societaria) al verificarsi di situazioni di crisi tempestivamente rilevate e affrontate. Ma, al di là dell’obbligo giuridico, va da sé che è interesse dell’imprenditore fare emergere anticipatamente lo stato di crisi, quand’anche esso sia solo potenziale; ciò in quanto un sistema di early warning può consentire di approntare senza indugio gli opportuni correttivi, prima che la crisi diventi irreversibile, causando l’insolvenza dell’azienda e la sua successiva decozione e dissoluzione in seguito a procedure concorsuali.

RELAZIONE TRA MODELLI ORGANIZZATIVI “231” E SISTEMA DI RILEVAZIONE PREVENTIVA DELLA CRISI

Le imprese che hanno già adottato i modelli organizzativi di cui alla legge 231/2001 sono avvantaggiate nella predisposizione dell’adeguato assetto richiesto dal 2° comma dell’art. 2086 c.c.; ciò in quanto la struttura del “modello 231” ha in sé già molto di quanto richiesto dal sistema di rilevazione preventiva della crisi; in estrema sintesi, infatti, esso si concretizza in un insieme di regole atte a formalizzare gli assetti organizzativi, nonché le procedure che consentono di trasformare i dati in informazioni; infatti, anche l’adeguato assetto organizzativo richiesto dall’art. 2086 c.c. si sostanzia nelle stesso insieme di regole e procedure ma cambia, tuttavia, l’oggetto di riferimento; mentre i modelli 231 sono finalizzati alla prevenzione di comportamenti illeciti, l’adeguato assetto ex art. 2086 c.c. è finalizzato alla precoce rilevazione dello stato di crisi e alla relativa segnalazione della stessa agli organi dirigenziali e di controllo dell’azienda (amministratori e sindaci), affinchè essi prendano per tempo i necessari provvedimenti onde evitare che la crisi divenga irreversibile.

Non v’è dubbio che l’emersione precoce della crisi debba coinvolgere, all’interno dell’azienda, soggetti diversi da quelli che si occupano della gestione delle risorse “231”; i soggetti coinvolti saranno tipicamente i lavoratori dell’area amministrativa e contabile, che dovranno essere inseriti in un programma di apprendimento che consenta loro di acquisire le conoscenze necessarie alla valutazione tempestiva dello stato di crisi aziendale, anche solo potenziale. Ebbene, chi ha già istituito e implementato i modelli 231 è indubbiamente avvantaggiato, dal momento che ha già formalizzato la separazione delle competenze tra i soggetti a vario titolo presenti in azienda e ha già istituito i check points che sono anche alla base dell’adeguato assetto di cui all’art. 2086 c.c..  A quanto così predisposto dovrà aggiungersi, però, una formazione specifica sui cosiddetti KPI (key performance indicators), ossia su quegli indicatori significativi della prestazione economica e finanziaria globale, che consenta di tenere sotto controllo l’andamento della gestione. In dettaglio, il sistema contabile interno dovrà essere impostato in modo tale da consentire non solo la rilevazione dei dati generali ma, altresì, l’interpretazione degli stessi in un’ottica di analisi delle eventuali anomalie rispetto agli standard di corretta gestione aziendale.

Quello che margine e quoziente di struttura non dicono

Foto: “Bilancio”, di Clauz, da Flickr

Tutti conosciamo la regola della corretta correlazione tra fonti e impieghi, ossia quella per cui l’attivo fisso deve essere finanziato esclusivamente da fonti a medio lungo termine. In caso contrario ci si troverebbe nella deprecabile (e dannosa) situazione in cui i debiti a breve scadenza finanziano parte degli impeghi a ritorno liquido di durata medio – lunga. Risultato: default aziendale, decozione e fallimento. Fine.

E, come già sappiamo, il principale indice di solidità, ossia quello che indica la correlazione tra fonti e impieghi, è il margine di struttura; esso mette a confronto le fonti durevoli (il patrimonio netto e i debiti finanziari a medio – lungo termine) con l’attivo fisso. Se il margine così calcolato assume valore positivo, la correlazione è rispettata.

In dettaglio, possiamo distinguere diverse configurazioni del margine di struttura; eccole di seguito esposte.

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Debito? Sì, ma quanto?

“Sad emoticon”, from pdpics.com

Come ben sappiamo, le piccole e le micro imprese italiane sono caratterizzate, dal punto di vista della struttura finanziaria, da un limitato apporto di capitale da parte dei soci o del singolo imprenditore e da un più significativo ricorso al finanziamento bancario. È infatti arcinoto che le compagini societarie che caratterizzano la maggioranza delle imprese nazionali siano costituite da nuclei ristretti composti da persone legate da vincoli familiari o di amicizia o altre volte addirittura anche da un solo imprenditore. La necessaria conseguenza è la limitatezza delle risorse finanziarie disponibili per l’investimento in azienda; ciò rende le piccole e le micro imprese italiane sovente sottocapitalizzate ed esposte alla necessità di richiedere finanziamenti al sistema creditizio.

Ebbene, il ricorso all’indebitamento presenta dei vantaggi e degli svantaggi; volendo sintetizzare, a tal riguardo possiamo riassumerli come segue.

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Il supermarket del debito bancario

Photo credits: “Supermarket – South Carolina” , by Donald West, from Flickr

E vaccino fu.

Dopo mesi di attese, finalmente, prende forma il piano vaccinale che, entro il mese di settembre 2021, dovrebbe consentire di metterci l’incubo COVID alle spalle.

Viene da chiedersi, dunque, quale situazione avremo di fronte nel momento in cui potremo smettere di parlare di “economia di sopravvivenza” e cominceremo a parlare seriamente di reboot economy.

Il mio timore è quello di trovarsi di fronte ad una situazione analoga a quella vissuta da molti a ogni fine lockdown, in cui i meno accorti hanno passato il tempo a sfornare torte e pizze fatte in casa, accumulando chili su chili, trovandosi infine a dover rendere conto ad una impietosa bilancia. Cosa c’entra, direte voi. E mica siamo tanto lontani da una situazione del genere. Solo che, anziché parlare di chili di troppo, parliamo di debiti.

 Ebbene, in ambito finanziario, il rischio è quello di trovarsi di fronte ad aziende che hanno accumulato debiti finanziari indotti dalle varie misure di emergenza governative emanate nel corso dei mesi; c’è da immaginare che il peso della “finanza d’urgenza”, cumulato all’aumento dei debiti verso fornitori in seguito al riscadenzamento degli stessi nel periodo emergenziale e alle dilazioni sui debiti fiscali e previdenziali darà luogo, al momento di riavviare i motori, all’ipertrofia della voce “debiti” dello stato patrimoniale.

Con questo non si vuole condannare chi, impossibilitato o fortemente rallentato nel portare avanti la propria attività (es. gestori di palestre, piscine, discoteche, alberghi e ristoranti), si è visto costretto, per tirare avanti, ad aderire ad aiuti finanziari che, in epoca COVID, hanno indubbiamente fatto la differenza tra continuare ad esistere o chiudere bottega.

Ma proviamo a immaginare cosa potrebbe ragionevolmente accadere nei momenti in cui, finalmente, le attività potranno riprendere senza le restrizioni dovute all’emergenza sanitaria.

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Il bilancio che verrà

Foto: “Bilancio”, di Clauz, da Flickr

Ultimamente noi commercialisti siamo bombardati, nelle email commerciali e nelle newsletter, da una frase ricorrente: gli effetti della pandemia da COVID 19 sul bilancio 2020.

Ci sarebbe da scrivere e discettare per ore sull’argomento, poiché non v’è dubbio che le misure messe in atto, sia a livello istituzionale, sia a livello di operatività aziendale, abbiano avuto riflessi su molteplici aree del bilancio: sicuramente su quella del conto economico, laddove alcune imprese hanno subito la contrazione dei ricavi mentre altri hanno mantenuto o addirittura incrementato i livelli di fatturato; sul piano dei costi, invece, un’area critica è sicuramente costituita, ad esempio, dai costi del personale: al mantenimento dei livelli occupazionali, coadiuvato dalle misure straordinarie messe in campo dal Governo, spesso ha fatto seguito, per le aziende, l’appesantimento della gestione nel momento in cui dette misure sono venute meno, a causa dei cali di fatturato connessi ad un business che non ripartiva. Altre imprese, invece, hanno assunto nuovo personale proprio sulla scorta degli incrementi di fatturato indotti dalla pandemia (si pensi al settore sanitario, per esempio). In generale, in un modo o nell’altro, è innegabile che la pandemia avrà impatto sull’ultima voce del conto economico: l’utile d’esercizio.

Quelle che seguono, tuttavia, sono riflessioni su quelli che, a parere dello scrivente, saranno gli impatti sulle aree di bilancio maggiormente significative sul piano finanziario, nell’ottica di analisi di un’azienda la cui attività è andata in difficoltà a causa della pandemia.

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DALL’ECONOMIA DI RIPARTENZA A QUELLA DI SOPRAVVIVENZA

Man on a wire – Photo by GJones94 (from Flickr)

In un precedente contributo avevo trattato il tema della Reboot economy, ossia il ripensamento dei modelli di business alla luce dei cambiamenti imposti alla gestione aziendale dalla pandemia da coronavirus, finalizzato a dare continuità all’attività di impresa.

Dopo una tregua di pochi mesi, i recenti provvedimenti governativi hanno previsto la suddivisione dell’Italia in zone differenziate sulla base del maggiore o minore rischio di contagio, nonché l’avvio di nuove procedure di lockdown, ossia di stop forzato delle attività economiche.

Alla luce di ciò, si impone nuovamente una riflessione su come affrontare il futuro, che tenga conto delle nuove e ulteriori perdite che le aziende dovranno sopportare a causa dei mancati ricavi derivanti da una chiusura imposta dal rafforzarsi dei contagi.

Nel presente scritto si vogliono sinteticamente riepilogare quelle che dovranno essere le prossime mosse degli imprenditori e dei loro consulenti al fine di verificare la sostenibilità, soprattutto sul piano finanziario, dell’auspicata continuazione dell’attività. Quali saranno, dunque, i passi da seguire?

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La rivalutazione dei beni d’impresa: influenza sul rating bancario

Photo by Mick Tursky, “building reflection”, from Flickr

Il Decreto Legge 104 del 14 agosto 2020 ha previsto all’art. 110, per le società di capitali che non adottano i principi contabili internazionali nella redazione del bilancio (ma anche per le s.n.c., le s.a.s. e le imprese individuali), la possibilità di rivalutare i beni d’impresa materiali e immateriali e le partecipazioni in società controllate e in società collegate ai sensi dell’art. 2359 c.c. costituenti immobilizzazioni.

La novità che assume valenza dirompente rispetto alle leggi di rivalutazione che si sono susseguite negli ultimi anni non risiede tanto nella ridotta aliquota dell’imposta sostitutiva, necessaria al riconoscimento a fini fiscali della rivalutazione (il 3% anziché il 10-12% previsto dall’ultima legge di bilancio) quanto, piuttosto, nella possibilità di effettuare una rivalutazione anche con effetti esclusivamente civili a prescindere dal riconoscimento fiscale; non accadeva dall’ormai lontano anno 2008. Altra novità di rilievo rispetto al passato è che la rivalutazione non deve più essere necessariamente eseguita per categorie omogenee ma, ai sensi del comma 2 dell’art. 110, può essere effettuata distintamente per ciascun bene;il che significa che l’imprenditore o il manager, in sede di redazione del bilancio, può anche scegliere di rivalutare, nell’ambito della stessa categoria di immobilizzazioni, alcuni beni piuttosto che altri.

La rivalutazione è sottoposta alla condizione per cui i beni che ne costituiscono oggetto devono essere iscritti nel bilancio relativo all’esercizio in corso al 31 dicembre 2019 e andranno rivalutati nel bilancio dell’esercizio successivo (per i soggetti con bilancio coincidente con l’anno solare, quello chiuso al 31 dicembre 2020).

Effettuato dunque il necessario inquadramento normativo, passiamo ad esaminare gli effetti che l’operazione di rivalutazione poc’anzi descritta può avere, se effettuata, sui rating bancari.

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L’utilizzo della PFN come covenant finanziario

Nel precedente articolo ci siamo occupati della posizione finanziaria netta e del suo significato nell’ambito dell’analisi di bilancio; in questo numero vediamo uno dei più significativi utilizzi della PFN. Nella fattispecie, analizziamo l’utilizzo della PFN come indicatore del grado di indebitamento finanziario dell’azienda e vediamo altresì, riallacciandoci a un precedente contributo, come detto indicatore possa essere utilizzato in qualità di covenant finanziario all’atto della sottoscrizione di una linea di credito bancaria.

Ebbene, una volta riclassificato lo stato patrimoniale con criteri funzionali, una delle modalità di espressione del grado di indebitamento finanziario deriva dal rapporto tra posizione finanziaria netta e patrimonio netto (o equity):

PFN/E

Sovente accade che detto indicatore venga utilizzato nell’ambito della concessione di linee di credito d’importo rilevante a medio-lungo termine; più in dettaglio, in tali circostanze la banca esige che, data l’entità della cifra mutuata, il livello di indebitamento complessivo dell’azienda non superi, nel tempo, una determinata percentuale rispetto ai mezzi propri, in quanto detto superamento sfocerebbe in gravosi squilibri finanziari, tali da rendere difficoltosa la restituzione del prestito concesso.

Per cautelarsi da situazioni del genere, dunque, all’atto della concessione del credito l’istituto bancario pretende la sottoscrizione di un apposito contratto (covenant) in cui viene stabilita una condizione tale che, in caso di superamento delle percentuali di indebitamento indicate nel contratto, la banca abbia titolo per chiedere il rientro delle somme concesse.

Posta in questi termini la questione, non sembrerebbe esserci, per il Commercialista, un rilevante impegno sul piano professionale; in realtà è proprio qui che diviene determinante l’apporto del consulente aziendale, che si esplica nel far sì che, nella stipula del covenant, vengano inclusi gli elementi che possono volgere il rapporto di indebitamento a favore del proprio cliente, in modo tale che vengano tenuti in dovuta considerazione gli asset che riducono il livello di indebitamento, al di là di quelli che sono i meri valori contabili ritraibili dal bilancio.

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