Gli indicatori di allerta della crisi d’impresa (parte prima)

foto di “David”, estratta da Flickr

Dopo lunghe attese e curiosità da parte degli operatori, il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili ha finalmente pubblicato il documento contenente gli indicatori di allerta per la prevenzione della crisi d’impresa, previsto dall’articolo 13 del nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza (D. Lgs. 14 del 12/01/2019). Come previsto dalla norma, gli indici così elaborati dovranno essere successivamente approvati con decreto del Ministero dello Sviluppo Economico.

Com’era ampiamente previsto, gli indici in parola hanno stretta attinenza all’analisi della situazione finanziaria; del resto, come recita un vecchio adagio diffuso tra i commercialisti, “i bilanci si redigono per competenza, i fallimenti si fanno per cassa”. Vale a dire che, nella crisi d’impresa, l’aspetto finanziario è preponderante rispetto a quello economico; un’azienda con buona redditività ma con difficoltà finanziarie potrebbe benissimo trovarsi in situazioni di crisi anche in presenza di incrementi di fatturato.

Nel presente contributo, dunque, si cercheranno di illustrare sinteticamente gli indici elaborati dal CNDCEC, in pendenza di approvazione da parte del Ministero, cercando di razionalizzare e semplificare i concetti esposti nel documento rilasciato il 27 ottobre scorso. La trattazione verterà, in questa sede, sugli indici relativi alle imprese in continuità, rinviando, eventualmente, ad un successivo contributo la trattazione dei cosiddetti indici specifici, riferiti alle start – up e alle PMI innovative, alle società in liquidazione e a quelle costituite da meno di due anni.

Partiamo dalla lettura della norma: l’articolo 13 del CCI prevede che gli indici debbano dare “evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei mesi successivi. A questi fini, sono indici significativi quelli che misurano la sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare e l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi. Costituiscono altresì indicatori di crisi ritardi nei pagamenti reiterati e significativi”.

La prima considerazione che balza all’attenzione del lettore riguarda l’orizzonte temporale di investigazione infrannuale, più precisamente semestrale. A parere di chi scrive, il Legislatore ha voluto mandare un messaggio forte e chiaro a quei soggetti avvezzi alle “politiche di abbellimento contabile”: toglietevi dalla testa la possibilità di eseguire la verifica solo annualmente, magari in sede di redazione del bilancio d’esercizio, dando luogo ad aggiustamenti delle poste contabili finalizzati a nascondere potenziali situazioni di crisi.

Come si vedrà a breve, il documento elaborato dal CNDCEC ha istituito una sorta di gerarchia tra gli indici scelti, dando rilevanza primaria all’aspetto patrimoniale e solo successivamente a quello finanziario. Questa impostazione è certamente condivisibile, in quanto la sussistenza di uno stato di crisi va ravvisata nello squilibrio patrimoniale ancor prima che in quello finanziario, in quanto nel primo caso l’azienda non ha più i mezzi per continuare a prosperare; la crisi patrimoniale, cioè, fa venire meno la continuità aziendale, ossia la capacità dell’impresa di continuare ad operare come un’entità in funzionamento.  Tuttavia, suscita sorpresa la scelta del principale indice posto a fondamento della valutazione dello stato di crisi, identificato nel patrimonio netto negativo o inferiore al minimo legale.

È evidente, infatti, che un sistema di allerta che vuol definirsi precoce dovrebbe basarsi, a parere di chi scrive, su un indice che rappresenti uno switch da una situazione di prosperità e di continuità a una situazione di difficoltà; il valore negativo del patrimonio netto rappresenta, invece, una situazione di decozione già in atto e non di allerta preventiva, in quanto le perdite hanno completamente eroso capitale e riserve. In una prospettiva di early warning (allarme preventivo) sarebbe stato maggiormente significativo, piuttosto, un indice quale il margine di struttura primario (patrimonio netto – attivo immobilizzato) o secondario (patrimonio netto + debiti finanziari a ML – attivo immobilizzato).

Se, dunque, il valore del patrimonio netto è negativo o inferiore al minimo legale scatta la sussistenza della ragionevole presunzione dello stato di crisi, con tutte le conseguenze di natura giuridica per amministratori e organi di controllo che esulano, però, dalla presente trattazione.

Se invece il suddetto valore è positivo, l’indagine si sposta dall’aspetto patrimoniale a quello finanziario; più precisamente, seguendo la lettera della norma, si tratta di investigare la sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare.

A tal proposito, il CNDCEC individua l’indice di riferimento nel Debt Service Coverage Ratio o DSCR, che nella formulazione “classica” degli indici di bilancio d’esercizio esprime il rapporto tra il flusso di cassa operativo annuale, necessario a ripagare il debito, e gli importi delle rate di finanziamento e di leasing derivanti dagli impegni finanziari a medio lungo termine:

Flusso di cassa operativo

diviso

totale rate di finanziamento e leasing dell’anno

Il documento del CNDCEC, alla cui lettura si rinvia per le numerose informazioni di dettaglio, fornisce in sintesi due criteri di calcolo del DSCR:

  • Uno derivato dal budget di tesoreria;
  • Uno derivato dal rendiconto finanziario OIC 10.

Il primo metodo, in estrema sintesi, è finalizzato a rappresentare le entrate e le uscite attese per un periodo prospettico di sei mesi. Preliminarmente occorre calcolare il budget di tesoreria per il periodo suddetto; successivamente si costruisce un quoziente contenente:

al numeratore la somma delle giacenze iniziali di cassa e delle entrate di liquidità previste per i sei mesi successivi, dalla quale sottrarre tutte le uscite di liquidità previste per lo stesso periodo, ad eccezione dei rimborsi dei debiti finanziari, posti al denominatore; si tiene conto al numeratore anche della gestione degli investimenti e della gestione finanziaria, nel cui ambito rilevano anche i flussi attivi derivanti dalle linee di credito non utilizzate delle quali, nell’orizzonte temporale di riferimento, si renda disponibile l’utilizzo (con riferimento alle linee autoliquidanti, esse dovrebbero essere considerate fruibili per la sola parte relativa ai crediti commerciali anticipabili);

al denominatore si sommano le uscite previste contrattualmente per rimborso di debiti finanziari (verso banche o altri finanziatori). Il rimborso è inteso come pagamento della quota capitale contrattualmente prevista per i successivi sei mesi.   

Il secondo metodo contempla “il rapporto tra i flussi di cassa complessivi liberi al servizio del debito attesi nei sei mesi successivi ed i flussi necessari per rimborsare il debito non operativo che scade negli stessi sei mesi”:

al numeratore va inclusa la somma:

– delle disponibilità liquide a inizio periodo di osservazione;

più le linee di credito disponibili che possono essere usate nell’orizzonte temporale di riferimento (anche in questo caso, con riferimento alle linee autoliquidanti esse dovrebbero essere considerate fruibili per la sola parte relativa ai crediti commerciali anticipabili);

più i flussi finanziari derivanti dall’attività operativa, calcolati applicando il principio OIC 10 (paragrafi da 26 a 31);

meno i flussi derivanti dal ciclo degli investimenti (paragrafi da 32 a 37 dell’OIC 10). Non concorrono al calcolo dei flussi operativi gli arretrati di cui alle lett. e) e f) del documento, che vanno computate al denominatore (si tratta, come si vedrà tra breve, degli arretrati per debito fiscale o contributivo non corrente, nonché di quelli per debito nei confronti dei fornitori e degli altri creditori il cui ritardo di pagamento è da ritenersi “non fisiologico”).

al denominatore va inclusoildebito non operativo che deve essere rimborsato nei sei mesi successivi. Esso, secondo la definizione del CNDCEC, è costituito da:

Le linee di credito in scadenza nei sei mesi successivi, sono collocate al denominatore salvo che se ne ritenga ragionevole il rinnovo o il mantenimento.

In base al documento CNDCEC la scelta tra i due approcci è discrezionale, è rimessa agli organi di controllo e dipende dalla qualità ed affidabilità dei relativi flussi informativi.

Ai fini del calcolo del DSCR l’orizzonte temporale di sei mesi può essere ampliato alla durata residua dell’esercizio se superiore a sei mesi, se ciò rende più agevole ed affidabile il calcolo dell’indice. In ogni caso, numeratore e denominatore devono essere tra di loro confrontabili.

Le procedure di costruzione ed utilizzo del modello quantitativo di previsione dei flussi dell’impresa devono essere controllabili e adeguate alla complessità ed alle dimensioni dell’impresa. Sono normali gli scostamenti tra i dati stimati e quelli consuntivi; tale scostamento non è, di per sé, sintomatico di scarsa affidabilità della costruzione dei dati prognostici.

È superfluo rimarcare che, per non far scattare l’allerta, il valore del DSCR deve essere positivo e superiore a 1. Il DSCR è il cuore di tutto l’impianto di rilevazione preventiva della crisi. Difatti, gli ulteriori indici elaborati dal CNDCEC entrano in gioco solamente nel caso in cui il DSCR non è disponibile o è ritenuto non affidabile per la inadeguata qualità dei dati prognostici. Ma di questo parleremo nel prossimo articolo.

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