Evasione fiscale: effetto boomerang sulle PMI

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Da tempo immemore si discute sul fatto che l’evasione fiscale rappresenti uno dei principali freni al reperimento delle entrate di bilancio dello Stato; particolarmente acceso è il dibattito che verte sulla mancata riscossione del gettito derivante dall’imposizione sulle aziende.

Sul punto si contrappongono le opinioni da un lato dei rappresentanti delle istituzioni e delle agenzie fiscali, che segnalano crescenti irregolarità negli adempimenti delle aziende italiane e promettono una massiccia opera di contrasto all’evasione anche mediante lo sviluppo di nuovi e più sofisticati meccanismi di controllo; dall’altro lato gli imprenditori lamentano una eccessiva pressione tributaria, tale da impedire lo sviluppo della competitività delle proprie aziende a causa del drenaggio di risorse finanziarie operato dal prelievo erariale, mentre, a fronte della riscossione, lo Stato offrirebbe servizi scarsamente efficienti, ossia “costa troppo per quello che dà”; alcuni di costoro, addirittura, sostengono che evadere le imposte sarebbe l’unico mezzo per sopravvivere e non sparire dal mercato.

In questa sede non si vuole entrare nel merito della suesposta trattazione, che attiene ad argomentazioni più politiche che tecnico/professionali; tuttavia è opportuno segnalare un pericoloso effetto boomerang generato dalle pratiche finalizzate a conseguire un indebito risparmio di imposta tramite l’occultamento nei bilanci aziendali di materia fiscalmente imponibile .

Passando in rassegna la giurisprudenza tributaria si rileva che, tipicamente, le modalità di occultamento dei redditi d’impresa avvengono attraverso una artificiosa riduzione del fatturato e/o l’esposizione di costi operativi non realmente sostenuti; gli effetti di tali pratiche, a loro volta, si riverberano in minori utili esposti nei bilanci d’esercizio rispetto ai reali risultati conseguiti; gli utili così artatamente ridotti, pertanto, sconteranno in dichiarazione dei redditi una minore imposta.

Tuttavia, chi esegue tali pratiche non tiene in considerazione un importante elemento: l’artefatta compressione dei ricavi così come il fittizio aumento dei costi della gestione caratteristica hanno il deprecabile effetto di deprimere il risultato operativo desumibile dal bilancio d’esercizio; quest’ultimo, come noto, è uno dei principali elementi valutati dalle banche in sede di riclassificazione dei bilanci aziendali al momento della richiesta di finanziamento da parte delle imprese.
Infatti, nell’analisi di bilancio, il principale indice matematico atto a valutare la redditività aziendale è il ROI (return on investment), ossia il tasso di rendimento dell’investimento. Detto indice scaturisce proprio dal rapporto tra reddito operativo e capitale investito; ne consegue, in sostanza, che un abbassamento del reddito operativo per effetto di politiche di evasione fiscale comporta altresì una diminuzione del ROI, elemento non trascurabile nel momento in cui il bilancio, “manipolato” per l’occultamento di materia imponibile, viene presentato alla banca per la richiesta di concessione di finanziamenti.

Ma non basta: gli studiosi di analisi di bilancio (e le banche) sanno bene che la leva finanziaria, ossia la convenienza di un’azienda a indebitarsi, è tanto maggiore quanto più alto è lo spread tra il ROI e il tasso di interesse praticato dagli istituti di credito sui finanziamenti concessi; infatti è noto che una differenza positiva tra i due fattori genera un effetto moltiplicativo sul ROE, ossia sul tasso di rendimento del capitale proprio, direttamente apportato dall’imprenditore.
In altre parole, le banche hanno convenienza a concedere finanziamenti alle imprese fintanto che la capacità del business aziendale di remunerare il capitale complessivamente investito, misurata in termini percentuali, sovrasta il costo del denaro e dunque garantisce la restituzione del prestito concesso; inoltre ciò, stante le relazioni intercorrenti tra leva finanziaria e remunerazione del capitale proprio, consente un accrescimento del valore delle quote di capitale apportate dall’imprenditore, cioè in sostanza un aumento di valore dell’azienda.

Le politiche di evasione fiscale, invece, determinando sempre un artificioso depauperamento del reddito operativo per via dell’inquinamento operato in bilancio dall’occultamento dei redditi d’impresa, finiscono per deprimere agli occhi delle banche anche l’effettivo valore dell’azienda. Ciò in definitiva comporta lo sgradito effetto boomerang di peggiorare il rating attribuito alle aziende dalle banche, dal momento che l’analisi quantitativa eseguita dagli istituti di credito è basata proprio sui bilanci presentati al Registro delle Imprese. La conseguenza diretta di ciò consiste in una (apparente) minore remuneratività del business aziendale e si traduce dunque in una maggiore difficoltà di accesso al credito da parte delle imprese o, quantomeno, nell’accesso a condizioni più onerose, espresse sia in termini di più alti tassi di interesse applicati ai finanziamenti concessi, sia in termini del più alto valore delle garanzie personali o reali che vengono richieste  agli imprenditori a tutela delle esposizioni finanziarie.

 

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